"Niente è giusto o sbagliato ma è il pensiero che lo rende tale."
(W. Shakespeare)
Cammina senza guardare davanti a sè. Sguardo basso,fisso su un punto invisibile al mondo, pochi centimetri davanti ai suoi piedi. Le suole delle sue pantofole strisciano a terra con una precisione incredibile. Anche nella stanchezza tiene un comportamento fiero, duro, da anima eletta. Da potente. Dopo aver comandato con la stessa naturalezza il maggiordomo di casa e il grande statista ora fatica a comandare i suoi occhi. E non può nemmeno comandare il suo tempo. Vecchio di una vecchiaia che non avrebbe mai voluto vivere. Nonostante gli ordini impartiti a medici e ad infermieri, dettati con l'ultimo filo di voce, ora è nell'ala dell'ospizio dove non vorrebbe essere. Il perché è a cinque metri di distanza. Sotto la linea del muro, dove tiene fisso lo sguardo.
Le sue mani, penzolanti sui fianchi, graffiano piano l'aria. Una è incatenata con un morbido filo di gomma ad una cappelliera, sulla quale è agganciato una flebo. L'altra, tremante, va alla disperata ricerca del tubo del catetere. Deve premerlo e fare una leggera piega in avanti per ottenere tutta la fuoriuscita delle sue urine. Unico momento di potere che gli è rimasto nei confronti del suo corpo. Solitario gesto comandato che il cervello riesce a compiere sul corpo. L'altra cosa che può fare, è sedersi. Fermasi. Ma non morire. Per quello c'è una macchina che lo controlla ogni notte e gli strozza in gola l'ultimo respiro. La famiglia prima di tutto. Ed ora la famiglia lo vuole in vita. Nonostante tutto.
Ogni giorno una bella ragazza bionda e grassottella, con un sorriso smagliante e una voce morbida,viene ad augurargli il buon risveglio. E lui piange. Perché non può più rispondere, maledire, cacciare, insultare, sputare o qualunque altra cosa possa fare per esprimere la sua intenzione. A lui che bastava uno sguardo per trasformare una persona da stalliere di provincia a direttore generale, o per distruggere i sogni di gloria di un barone rampante. Ripensa a quello che sta facendo. Non ricorda bene. E' fermo, ha appena urinato. Nel corridoio non c'è nessuno, se non Arnoud, l'uomo che lo segue a cinque passi di distanza da una vita. Si avvicina con passo leggero e felpato, senza far sentire la sua presenza. Porta occhiali scuri e un completo nero, pagato profumatamente. Non parla. Per scelta del padrone. E' muto; peculiarità richiesta sul curriculum. Se deve chiamare aiuto porta con sè un piccolo trasmettitore elettronico. Nell'eventualità più terribile, un fischietto.
Il filo dei pensieri è tornato al suo posto. La finestra. Per ora davanti ci sono ancora le cime degli alberi e una decina di palazzi che svettano di là, oltre il muro della pace collinare. E' la sua città. Sono i suoi palazzi. Che spera cadano distrutti dalle saette. Deturpamenti che non aveva mai pensato potessero ritorcersi così violentemente contro di lui. Vede anche, a destra, quel pilone sghembo di cemento bianco. Fulcro di un ponte fatto costruire per il piacere del sindaco. Il primo progettista, italiano, chiese perché volessero un ponte su un torrente in secca 11 mesi all'anno. Il secondo, portoghese, non chiese nulla. Anzi regalò un secondo progetto per un nuovo ponte, speculare al primo. Tutto grazie ad un semplice zero in più sulla carta. Così la città avrebbe avuto un pilone pendente a sinistra e uno pendente a destra. Mentre il sindaco guardava dalla sua casa una V di vittoria, lui guarda, dalla sua residenza forzata, una X bianca che s'incrocia nello splendido tepore del bosco autunnale. Lo scriverebbe, ora, tutto questo. Ma non può. Le dita e il tatto, sempre così comodi rispetto alla bocca e al respiro (ormai troppo breve e flebile per articolare parole), sono persi: artrite. Il suo grande scudo di cartapesta, costruito in anni di studio e coltivazione del pelo sullo stomaco, non gli servono più. Non può più comunicare, ma fortunatamente non deve nemmeno ascoltare, o meglio sentire, le comunicazioni degli altri. E' quasi del tutto sordo. Non ha più scusanti per sentire quello che gli interessa sentire. Un'altra sosta. Manca poco più di un metro al bordo della finestra. Intravede già ciò che gli interessa. Potrebbe essere l'ultima volta che la vede. Lo sa. Lo spera. Dopo cinque anni, questo potrebbe essere l'ultimo momento, il definitivo. Dopo il salvataggio dall'ictus, le cure, la riabilitazione, era stato portato fino a lì, per vedere il cielo. Ma lui aveva guardato in basso, aspettandosi macchine di amici e parenti in sosta e paziente attesa, per entrare e fargli visita. Niente. Grigio nuvoloso, asfalto, marciapiede sbeccato. E una staccionata bianca. Aveva letto subito la scritta: "Una bella giornata così brutta non l'avevo mai vista". Fece licenziare il maggiordomo. Restò solo con Arnoud. Iniziò a fare fisioterapia, deciso a lottare per ritornare a camminare da solo. Dopo quasi un anno riuscì ad affacciarsi con le sue gambe alla stessa finestra. Stavolta il sole splendeva. Ma c'era ancora una frase sul legno ridipinto di verde. "La vita è solo un'ombra che cammina". Uno scherzo, pensò subito, debilitato e stanco. Non certo rivolto a lui. Gli portarono la notizia, due giorni dopo, della morte della sua compagna. Suicida. E lui la prese sorridendo. Stava bene, stava migliorando. E come sempre degli altri esseri che popolavano il mondo, non gliene importava nulla. Era il Mondo che lo attendeva, non la gente che lo popolava. Andò alla finestra. La vecchia frase non c'era più. Ma lui lesse il motivo del suo sospetto, la certezza che non si trattasse più di un caso:"Sarebbe dovuta morire prima o poi". Era il 24 di novembre. Alzò la mano tremante fino al vetro, bofonchiò un lamento e cadde a terra. Arnoud fischiò. Guardò fuori dalla finestra. Vide la frase. La fece cancellare. Venne messa una telecamera. Attese, due anni, per scoprire il colpevole. La staccionata bianca cambiava colore, gialla, poi azzurra. Poi nera. Ma di nuove frasi nemmeno l'ombra. Fece togliere la telecamera. Fece riposare Arnoud. La curiosità aveva vinto sulla rabbia. E lui tre giorni dopo, potè affacciarsi per vedere un'altra scritta.
"Domani, domani, domani" in giallo su verde. E iniziò a smaniare, per leggere la continuazione. Il futuro, il suo futuro, legato a quella frase. Ma non cambiava, non cambiava più. Si riprese, poco a poco. Fino al giorno in cui non potè uscire. Prima e unica volta dopo 4 anni dal primo infarto. Un altro 24 di novembre. 96 inverni compiuti da poco. Bombola ad ossigeno e sedia a rotelle con catetere nascosto. Teatro Regio, prima internazionale di una nuova interpretazione del Macbeth. Aveva deciso lui l'occasione per farsi vedere in giro. Aveva deciso la figlia il luogo e l'appuntamento migliore. Quando risentì, una dopo l'altra, le stesse battute, nello stesso giorno, con la stessa sequenza, guardò la figlia, che piangeva sulla spalla del marito. Non poteva più diseredare. Ma fu il futuro erede che lo prese in braccio per portarlo sull'ambulanza, di corsa, a metà della rappresentazione. Mentre lui arrivava all'ospedale e veniva salvato per il rotto della cuffia, qualcuno scriveva sulla staccionata della casa di riposo un'altra frase. "Consumati, consumati, corta candela!" in nero sul legno ormai stinto e ammuffito.
Erano passati altri dodici mesi. Ed ancora appoggiava una mano al bordo della finestra. Mise a fuoco la staccionata. Ma vide solo le schiene degli operai che spostavano assi di legno divelte e mezze marce. Non c'era più, la sua telescrivente con l'inferno. O con chi lo aveva odiato, fra tanti, più di tutti. Tremò dalla rabbia, e per la prima volta sperò che il suo cuore non cedesse proprio in quel momento. Forse l'ultima. Sapeva quale sarebbe stata la frase, ma non aveva in mente che grammatica avrebbe usato il suo interlocutore. L'avrebbe rivolta a lui, direttamente, oppure sarebbe restato generico? Cadde, perché il sangue non circolava più nel corpo. L'aria mancava mentre, guardando il soffitto accasciato a terra, Arnoud si avvicinava. Riuscì ad esalare l'ultimo respiro senza sentire il fischietto di Arnoud sibilare. Capì solo che gli stava sibilando in un orecchio: "Arrenditi, codardo".
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